LA CASA DEI FANTASMI

PREMESSA

«Ci si può chiedere se la storia dell’arte (chi se lo chiede è Georges Didi-Huberman nel saggio L’IMMAGINE INSEPOLTA. Aby warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte) sia veramente “nata” un giorno. Diciamo almeno che non è mai nata una volta…» e formula «un’ipotesi: il discorso storico non “nasce” mai. Ricomincia sempre… ricomincia ogni volta». Venti anni prima Hervé Fisher (L’HISTOIRE DE L’ART EST TERMINÉE) si interrogava invece sulla sua fine. «La fine della Storia dell’arte non significa affatto la fine dell’arte. Al contrario. Perché sottraendoci all’illusione storicistica  e al mito prometeico del progresso in arte, scopriamo i suoi vincoli con il mito faustiano, l’arte è una esperienza-limite di lucidità per far luce sull’immagine del mondo».  Secondo Fisher, quando Platone voleva cacciare gli artisti e i poeti dalla repubblica «Non prediceva la morte dell’arte – che non aveva ancora una storia. Denunciava soltanto gli artisti in quanto mentitori nefasti». E comunque, dopo due secoli che se ne parla «l’idea della morte dell’arte è diventata vecchiotta» mentre la storia dell’arte sembrerebbe rimandare senza posa la propria fine.

Ecco, gli artisti sono dei «nefasti mentitori» e quindi le loro opere non sono che dei fantasmi. D’altronde – diciamo noi - le ombre che si stagliano sulla parete della caverna possono essere interpretate in vario modo, così come la creazione può essere appannaggio di tutti. Come giustamente sostengono Serena Giordano e Alessandro Dal Lago «ammettere che qualsiasi cosa può diventare arte e che chiunque può essere artista, lungi dal configurarsi come un relativismo an-estetico, rappresenta, a nostro parere, un riconoscimento delle potenzialità artistiche di chi, per qualsiasi motivo, è escluso o non riconosciuto dalle guardie confinarie dell'esclusivismo estetico. Significa guardare all'universalità potenziale dell'arte».

Per Didi-Huberman, la storia dell’arte secondo Warburg è «un vortice – un momento-agitatore – al di là del quale il corso delle cose risulta modificato, se non sconvolto, in profondità». Il problema di fondo è però che - ammette – «Warburg è il nostro assillo, la nostra ossessione, è per la storia dell’arte ciò che un fantasma non esorcizzato  – un dibbuk – sarebbe per la dimora in cui abitiamo».  A metà degli anni novanta June Houston ha disposto in vari punti sensibili della sua casa – sotto il letto, in cantina e in altri punti strategici - una serie di webcam direttamente collegata al sito Ghostwatcher, in modo che chi avesse avvistato dei fantasmi potesse avvisarla in tempo reale.

Improvvisamente, poco prima d Natale, scopriamo che la nostra sede è infestata dai fantasmi, e non ce ne eravamo accorti: “Mobili spostati in continuazione, cadute di oggetti! In tutte le stanze della casa” ci informa un foglio anonimo incollato sulla porta, che minaccia  (ma ci piacerebbe dire che promette) “le registrazioni dei rumori a tutte le ore!”.   Gli ignoti spiritelli hanno quindi forzato una finestra e  si sono introdotti nella sede di MUSEOTEO+: in quanto museo senza opere, non hanno potuto rubare niente, ovviamente.

Il motto che MUSEOTEO+ ha scelto per il 2014 è CON  I  PIEDI  PER TERRA, ma come stare razionalmente con i piedi per terra quando si è dei sognatori e in più si vive in una casa popolata di fantasmi?

«Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole» diceva Ennio Flaiano. Sognatori  a occhi aperti, siamo noi, fabbricanti di sogni e cercatori di fantasmi, capaci di catalizzare attorno a sé forze, energie  e sinergie sempre nuove; attività che ci sembra trovare una adeguata  sintesi nel l’espressione THE CATALYST DAYDREAMER.

A parlare di arte e di fantasmi, ci riappare subito quello di Didi-Huberman, a sua volta alle prese con quello  - come abbiamo visto -  assai più impegnativo, di Aby Warburg: «Warburg, il nostro fantasma: da qualche parte dentro di noi, ma dentro di noi inafferrabile, sconosciuto». Ecco, caro Georges, noi saremo le tue webcam alla ricerca del fantasma che è in te. Ma anche che è dentro di noi. L’Atlante Mnemosyne e, soprattutto, la mostra ATLAS. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas?,ci spingono a compilare un piccolo ATLANTE DI FANTASMI. The Haunted Mansion, innanzitutto,  e poi il fantasma dell'opera, il fantasma del palcoscenico, il fantasma del Louvre, fantasma dìamore, il fantasma della libertà, il fantasma del passato (anche se sarebbe più corretto dire i fantasmi, così come gli scheletri nell’armadio) e allora ci sta il fantasma del ’68; siamo incerti se mettere anche il fantasma del pirata Barbanera o  Il fantasma di Sodoma  (Lucio Fulci), di sicuro ci stanno il fantasma Formaggino e la vendetta del fantasma Formaggino,  Ghostbusters,  GhostWatcher  e anche l’arto fantasma.  Aprire un dibattito su fantasmi e demoni non è nostra intenzione, però ci sta sicuramente Il demone del tardi («E a me dice il dottore/  Che scimmie così verdi/ Nei sogni del paese/  Lui non ne ha viste mai/  Genio peloso, demone del tardi/ Che mi somigli finché non mi guardi», Maler) e, ancora, gli spettri di Lafcadio Hearn, i fantasmi di Banana Yoshimoto, le visioni di Orhan Pamuk…  E, ovviamente, i fantasmi di Sophie Calle.

Come si evince dall’elenco proposto i fantasmi sono ovviamente una metafora, non solo dell’arte, ma dei grandi problemi del mondo, a partire dalle metropoli che da sempre esploriamo, senza, naturalmente, la pretesa di risolverli, come ci suggerisce il nostro stare con i piedi per terra…  Citiamo ancora Giordano e Dal Lago: «Se è vero che è opera d'arte ogni “cosa” capace di suscitare sentimenti (ma anche pensieri), in chi la fruisce, in chi la gode (e anche in chi ne è respinto), perché limitare tale capacità a chi è convenzionalmente etichettato come artista? Azzardiamo qui che - rinunciando in via sperimentale, ai canoni, e se vogliamo, ai pregiudizi, di una certa filosofia dell'arte, si aprono alla fruizione artistica territori imprevedibili e affascinanti».  Da sempre, sosteniamo noi, ci sono ancora tantissime persone (come noi, artisti e no) che, nelle mille contraddizioni del sistema, continuano romanticamente a credere nell’arte come mezzo di trasformazione del mondo. 

A progetto elaborato abbiamo appreso, non senza un certo fastidio, che Georges Didi-Huberman, con Arno Gisinger, avrebbe presentato al Palais de Tokyo (Paris) la nuova installazione Nouvelles histoires de fantômes.Siamo un po’ in ritardo, è vero, ma siamo avanti lo stesso.

Gerhard Richter, Achtundvierzig Portraits (Cuarenta y ocho retratos, 1972), Atlas, Reina Sofia, Madrid (2010)

LA CASA DEI FANTASMI - PROGETTO 

MUSEOTEO+, associazione culturale senza fini di lucro, dal 1990 opera a Milano (e anche a livello internazionale) nel campo dell’arte contemporanea, dell’immagine e della comunicazione, e organizza  eventi e mostre sia in collaborazione con realtà sociali che con enti istituzionali; gli interventi di MUSEOTEO+ si svolgono in genere nell’arco di una giornata o al massimo di due-tre giorni.

 

Il progetto a  cui la nostra associazione sta lavorando in questo periodo prende il nome di LA CASA DEI FANTASMI, e prevede vari interventi in case private, che dovrebbero sfociare in una mostra in una istituzione di rilevanza internazionale.

Il campo teorico è quello che muove dalla ricerca di Aby Warburg e Georges Didi-Huberman , ma i fantasmi sono ovviamente una metafora sia della memoria che della rappresentazione.

 

Sono per ora previste due mostre   una a Milano  - a cura di Giovanni Bai e Nicoletta Meroni - il 10 maggio 2014, ospiti di Rosanna Restelli in via Quinto Romano 22/3 e una a Gavirate (VA) il 22 giugno 2014 presso Casa Bai, a cura di Giovanni Bai/museoteo+ e di Ermanno Cristini/riss(e): luoghi legati alla memoria degli organizzatori e dei curatori e che prevedono l’intervento site-specific di artisti in vario modo legati alla esperienza di MUSEOTEO+.

LA CASA DEI FANTASMI

10 MAGGIO 2014 

A volte mi chiedo se si possa fare a meno della corrente elettrica.

L’autonomia di un computer porta a pensare la possibilità di stare qualche ora senza elettricità. Poi però ci vuole…

Allora possiamo ricorrere ai generatori, quelli dei mercati che fanno rumore, puzzano un po’, ma possono fare luce e permettono di usare la tecnologia.

E’ possibile pensare di organizzare una mostra senza la corrente elettrica? Un MuseoTeo certamente!

Per non essere troppo poetici però è bene chiarire che tutto è cominciato dalle pile.

Le pile fanno luce dove vuoi tu, le dirigi, le orienti e decidi che cosa escludere dalla tua vista e su che cosa fissare lo sguardo. Un po’ come un ladro.

I ladri di notte con le pile sono entrati dalla "murella" che divide la casa di Baggio dal cortile della scuola elementare, a luglio. Hanno usato una lunga scala di ferro che serviva di solito per pulire il tetto e la sua gronda dalle foglie, in autunno soprattutto.

 E allora dai racconti di chi ha trovato la sorpresa quel mattino dopo, io mi sono fatta il mio film.

Prima di tutto le pile, sì perché il giardino è scuro di suo, un po' anche di giorno, io lo ricordo così. E quella notte la casa doveva essere deserta e allora il buio era totale.

 Le pile tracciavano dei raggi di luce ristretti su per le pareti del muro da valicare e poi sulle finestre e le porte. La casa era deserta e allora è facile per un ladruncolo qualunque scassare una porta.

Le pile nella casa scovano piatti belli e posate d'argento luccicanti. Lo sapevano... niente di più. Negli altri piccoli appartamenti le pile non vedono luccicare niente e allora giù in cantina, ma anche lì, lamiera di un motorino e gli occhi di gatti rifugiati. E oggetti piccoli e grandi che non brillano, non parlano, ma ascoltano, continuano ad ascoltare da molto molto tempo.

Rimasti lì, fantasmi di fantasie belle e brutte, recenti e antiche. Anche la scala un po' riflette la luce delle pile, è di ferro e non c'è più, insieme alle stoviglie e alle posate buone.

MuseoTeo ha già abitato un castello dimora di fantasmi a Piovera in Piemonte, un vero castello, e oggi, sempre alla ricerca del luogo in cui presentare opere, persone e presenze più o meno consistenti, ha trovato una casa, da poco disabitata e ricca di storie familiari più o meno note.

Definita dal tema di questa edizione La casa dei fantasmi, la casa di Baggio ci invita a ritrovare i nostri fantasmi personali, collettivi, del passato, del presente costantemente presente e del tempo che verrà. Attraverso l’opera degli artisti coinvolti cerchiamo di individuare quali e quanti fantasmi ci attendono.

 (Nicoletta Meroni)

CASA RESTELLI  10 MAGGIO 2014  MILANO/BAGGIO

COMUNICATO NUMERO UNO

 

È una casa illuminata solo dalla luce del sole (o della luna), delle candele  o delle pile, la casa dei fantasmi che Nicoletta Meroni  ci invita ad esplorare: una villetta degli anni trenta nella periferia milanese di Baggio, da poco disabitata e ricca di storie familiari.

Si chiede Nicoletta se si possa fare a meno della corrente elettrica,  se si possa pensare di organizzare una mostra senza la corrente elettrica. Museo Teo certamente!

E poi le pile fanno luce dove vuoi tu, le dirigi, le orienti e decidi che cosa escludere dalla tua vista e su che cosa fissare lo sguardo.  Decidi se far apparire i fantasmi, oppure no, e così la casa di Baggio ci invita a ritrovare i nostri fantasmi personali, collettivi, del passato, del presente costantemente presente e del tempo che verrà.

Giovanni Bai ci svela i fantasmi – soltanto teorici? – di  Aby Warburg e Georges Didi-Huberman, ma , come fa anche Rosanna Restelli, sciorina tutti fantasmi della storia famigliare. Cercando nell’ ATLANTE DI FANTASMI che abbiamo compilato, Graziano Galli con la collaborazione di Walter Ferrari resuscita i fantasmi degli Anni Settanta, mentre tra le installazioni proposte da Museo Teo ritroviamo il fantasma della casa e l’arto fantasma, ma anche il fantasma di Giulio Carlo Argan. Il fantasma di Via Solari 40 rivive, invece, nella installazione Tutti i giorni di Greta Mangiagalli, Elisa Marchetti e Camilla Gramegna (ITSOS Albe Steiner).

Ettore Bordieri traccia una mappa dei fantasmi che popolano la casa, mentre Alessandra Attianese ragiona attorno al fantasma della fotografia; Carolina Gozzini costruisce una  casa dei fantasmi che è un omaggio a Perec, mentre l'installazione di Ermanno Cristini Naufragio è un omaggio a Guy Debord. EB Hasselbaker resuscita il fantasma di Pinocchiano del Merghez e Dario Cogliati dà vita ai suoi fantasmi personali grazie a una altrettanto personale tecnica di deformazione delle immagini.

Vera Portatadino presenta una serie di lavori pittorici, viaggio essi stessi, trance e  rievocazione degli spiriti primordiali dell'Africa Madre. 

Siamo in attesa di conoscere un vero cacciatore di fantasmi, che li scopre e fotografa lungo il Ticino: la cosa non ci stupisce visto che sia neI film Il cappotto che  Fantasma d’amore il ponte coperto di Pavia viene descritto come luogo di fantasmi. E poi ancora siamo in attesa di scoprire quali fantasmi ci sveleranno Mario Tedeschi, Luigi Fagioli, Klaus Guldbrandsen e Francesco Flamini.

Ospiti speciali da Berlino Alice Cannava/OCCULTO MAGAZINE e la street artist Ale Senso.

Interventi musicali fantasmatici a cura di Handpan House. 

 

LA CASA DEI FANTASMI - MATERIALI

 

 

CHARLES DICKENS

LA CASA DEI FANTASMI

Fu in assenza di qualunque circostanza ritenuta favorevole alle apparizioni spettrali, e in un contesto affatto privo di qualunque convenzionale ambientazione spettrale, che per la prima volta feci conoscenza con la casa protagonista di questo racconto natalizio. La vidi alla luce del giorno, sotto il sole. Non c'era vento, né pioggia, né lampi, né tuoni, né alcuna orribile o inconsueta circostanza, di alcun tipo, ad accentuarne l'effetto. Non solo; ero giunto lì direttamente dalla stazione: la casa si trovava a non più di un miglio di distanza dalla stazione; e, mentre me ne stavo lì fuori, a guardare indietro verso la strada da cui ero venuto, potevo vedere i treni merci correre tranquilli sul terrapieno della ferrovia nella vallata. Non dirò che tutto quanto era assolutamente banale, poiché dubito che qualcosa lo possa essere, se non agli occhi di persone assolutamente banali – e qui la mia vanità entra in gioco; ma mi prenderò la responsabilità di dire che chiunque ci capitasse in una bella mattina d'autunno, vedrebbe la casa come la vidi io.

Era facile vedere che si trattava di una casa da cui ci si teneva alla larga – una casa evitata dagli abitanti del villaggio al quale il mio sguardo era condotto dalla guglia di una chiesa a mezzo miglio circa da lì – una casa che nessuno voleva abitare. E la naturale deduzione era che avesse la fama di essere infestata dai fantasmi.

Nessun momento nell'arco delle ventiquattr'ore del giorno e della notte è così solenne per me come il primo mattino. D'estate mi alzo spesso molto presto, e mi ritiro nella mia stanza per svolgere il lavoro quotidiano prima di colazione, e in queste occasioni sono sempre profondamente colpito dalla quiete e dalla solitudine attorno a me. Oltre a ciò, c'è qualcosa di orribile nell'essere circondato da volti familiari addormentati – nel sapere che coloro che ci sono cari e a cui siamo cari sono profondamente inconsapevoli di noi in uno stato d'impassibilità che anticipa quella misteriosa condizione a cui tutti tendiamo – la vita interrotta, i fili spezzati del giorno prima, la sedia vuota, il libro chiuso, il lavoro non concluso ma abbandonato, tutte queste sono immagini della Morte. La tranquillità dell'ora è la tranquillità della Morte. Allo stesso modo vi si associano il colore e il clima fresco. Anche una certa aria che i familiari oggetti domestici assumono quando emergono al mattino dalle ombre della notte, quell'aria di essere più nuovi, e come erano molto tempo fa, corrisponde al modo in cui, nella morte, il volto sciupato della maturità o della vecchiaia si dissolve nell'aspetto giovanile di un tempo. Inoltre, una volta assistetti all'apparizione di mio padre, a quell'ora. Era vivo e in salute, e non successe assolutamente niente, ma lo vidi nella luce del giorno, seduto con la schiena rivolta verso di me, su una sedia che stava accanto al mio letto. Teneva la testa appoggiata alla mano, e se fosse addormentato o afflitto non potei discernerlo. Stupefatto nel vederlo lì, mi sollevai a sedere, cambiai posizione, mi sporsi dal letto, e lo guardai. Siccome non si muoveva, gli rivolsi la parola più di una volta. Siccome continuava a non muoversi, mi preoccupai e gli posai una mano sulla spalla, o così credevo... e non c'era nessuna spalla.

“Si è visto qualcosa, laggiù?”

Il padrone mi guardò di nuovo e quindi, con l'aria disperata di prima, chiamò rivolto alla stalla “Ikey!”.

Il richiamo produsse un giovane spilungone, con un volto rosso e rotondo, biondi capelli corti, una buffa bocca molto larga, il naso all'insù, e un ampio giacchino a righe viola, con bottoni di madreperla, che sembrava crescergli addosso ed essere sulla buona strada per arrivare – se non fosse stato arginato – a coprirgli la testa e scendere fin sotto gli stivali.

“Questo gentiluomo vuole sapere,” disse il locandiere, “se si è visto qualcosa ai Pioppi”.

“Donna 'ncappucciata con urlo,” disse Ikey, con grande vivacità.

“Intendi un grido?”

“Intendo un uccello, signore.”

“Una donna incappucciata con un gufo. Dio mio! E tu l'hai mai vista?”

“Ho visto l'urlo, io.”

“Mai la donna?”

“Non così bene come l'urlo, ma stanno sempre insieme.”

“Qualcuno ha mai visto la donna bene quanto il gufo?”

“Che Dio la benedica, signore! Molti!”

 Ora, sebbene io consideri con muto e solenne timore i misteri da cui la nostra esistenza è separata per mezzo della barriera del grande cimento e trapasso a cui vanno incontro tutti i viventi, e sebbene io non sia tanto audace da millantare di saperne qualcosa, non posso nemmeno conciliare il semplice sbattere di porte, squillare di campanelli, scricchiolare di assi e sciocchezze simili con la maestosa bellezza e l'intrinseca coerenza di tutte le leggi divine che mi è permesso comprendere, non più di quanto fossi stato capace, poco prima, di accostare al carro del sole nascente il contatto con gli spiriti del mio compagno di viaggio. Oltretutto, avevo vissuto in due case infestate dai fantasmi, entrambe all'estero. In una di queste, un vecchio palazzo italiano, che in effetti aveva la reputazione di essere gravemente infestato, e che per tale motivo era stato poco prima abbandonato due volte, avevo trascorso otto mesi quantomai tranquilli e piacevoli: e questo nonostante la casa contasse una quantità di misteriose camere da letto che non venivano mai usate e ci fosse, in una grande stanza nella quale io andavo a leggere, spessissimo e a qualunque ora, e accanto alla quale dormivo, un vano infestato di prima qualità. Suggerii garbatamente queste riflessioni al locandiere. E quanto al fatto che quella particolare casa avesse una pessima nomea, ragionai con lui, ebbene, quante cose avevano un'immeritata pessima nomea, e quanto era facile costruire pessime nomee, e non credeva forse che se lui e io ci fossimo messi a sussurrare insistentemente nel villaggio che un qualche vecchio stagnaio del posto, ubriacone e dall'aria strana, si era venduto al Demonio, con il tempo quello sarebbe stato sospettato davvero di un tale commercio? Tutti questi saggi discorsi risultarono totalmente inutili con il locandiere, devo confessare, e furono un tragico fallimento come mai ne ho riportati in vita mia.

 “Chi era Padron B.?” domandai. “Si sa cosa fece quando il gufo gufò?”

“Suonò il campanello,” disse Ikey.

Fui piuttosto colpito dalla pronta destrezza con la quale il giovanotto gettò il cappello di pelliccia sul campanello, facendolo suonare. Si trattava di un campanello rumoroso e sgradevole, e fece un suono veramente fastidioso. Gli altri campanelli portavano i nomi delle stanze alle quali i fili rimandavano, come “Stanza del Quadro”, “Stanza Doppia”, “Stanza dell'Orologio” e cose simili. Seguendo il campanello di Padron B. fino alla sua origine, scoprii che il giovane gentiluomo non aveva avuto che una mediocre sistemazione di quart'ordine in un ambiente triangolare nel sottotetto; in un angolo c'era un caminetto, per riscaldarsi davanti al quale, se mai ci era riuscito, Padron B. doveva essere stato esageratamente piccolo. Il caminetto era coperto da una cappa simile a una scalinata piramidale che conduceva al soffitto adatta alle dimensioni di Pollicino. La carta da parati da un lato della stanza era venuta giù di peso portandosi dietro pezzi di intonaco, e quasi bloccava la porta. Pareva che Padron B., nella sua condizione di spettro, si facesse sempre un dovere di tirare giù la carta. Né il locandiere né Ikey sapevano immaginare perché facesse il buffone a quel modo.

 Lascio giudicare ai lettori perspicaci la mia reazione quando, in tali incresciose circostanze, verso le dieci e mezzo, il campanello di Padron B. cominciò a suonare in modo assolutamente furioso, e Turk ululò finché la casa non echeggiò dei suoi lamenti!

Spero di non trovarmi mai più in uno stato d'animo così poco caritatevole come quello in cui vissi per qualche settimana, con rispetto per la memoria di Padron B. Se a suonare il campanello fossero i ratti, o i topi, o i pipistrelli, o il vento, o qualunque altra vibrazione accidentale, o se la causa fosse a volte una, a volte un'altra, a volte più d'una insieme, questo non lo so; ma certo è che di fatto suonò due notti su tre finché non concepii la felice idea di torcere il collo di Padron B. – in altre parole mettere a tacere una volta per tutte il campanello – e zittire il giovane gentiluomo per sempre, almeno per quanto ne so e credo.

Ma a quel punto la Stramba aveva sviluppato una tale crescente capacità di cadere in catalessi che era diventata un fulgido esempio di questo assai inopportuno disturbo. Come un Guy Fawkes, si irrigidiva senza alcuna ragionevolezza nelle circostanze più insignificanti. Mi rivolgevo alla servitù in modo semplice e chiaro, facendo notare loro che avevo ritinteggiato la stanza di Padron B. eliminando la carta da parati, e avevo rimosso il campanello di Padron B. eliminando il suo squillo, e se potevano credere che quel dannato ragazzo fosse vissuto e defunto per manifestarsi poi con un comportamento che avrebbe potuto solo e senza dubbio condurlo, nell'attuale imperfetto stato esistenziale, a stretto contatto con le più minute particelle di una scopa di saggina, non potevano allora credere altresì che un semplice e povero essere umano quale ero io fosse in grado, con tali mezzucci meschini, di contrastare e arginare i poteri di quegli incorporei spiriti dei morti, o di qualunque altro spirito? Dirò che, nel fare discorsi simili, diventavo eloquente e persuasivo, per non dire anche piuttosto compiaciuto, ma poi tutto si concludeva in un nulla di fatto a causa della Stramba che improvvisamente si irrigidiva da capo a piedi, e rimaneva a fissare nel vuoto in mezzo a noi come una statua in una chiesa di provincia.

 Ma torniamo al nostro gruppo. La prima cosa che facemmo quando fummo tutti radunati fu tirare a sorte per assegnare le camere da letto. Fatto ciò, e dopo che ogni camera, e di fatto l'intera casa, fu minuziosamente esaminata da tutti, assegnammo i vari compiti domestici, come fossimo una carovana di zingari, o la ciurma di una nave, o un drappello di cacciatori, o dei naufraghi. Riferii poi delle voci che giravano sulla donna incappucciata, sul gufo e su Padron B.; e altre, più vaghe, che erano circolate durante il nostro soggiorno, a proposito di un certo ridicolo fantasma di sesso femminile che andava su e giù trasportando il fantasma di una tavola rotonda; e anche a proposito di uno sfuggente somaro che nessuno era mai riuscito a scorgere. Alcune di queste idee credo veramente che fossero state trasmesse dall'uno all'altro dei nostri sottoposti per via infettiva, senza esprimerle a parole. Quindi ci giurammo solennemente l'un l'altro che non eravamo lì per farci ingannare o per ingannare – due cose per noi assolutamente identiche – e che, con grande senso di responsabilità, saremmo stati rigorosamente sinceri uno con l'altro, e avremmo rigorosamente perseguito la verità. Si stabilì di comune accordo che chiunque udisse rumori insoliti nella notte, e desiderasse risalire alla causa, avrebbe dovuto bussare alla mia porta; e infine che la vigilia dell'Epifania, ultima notte del periodo natalizio, tutte le esperienze individuali dall'istante esatto in cui ci eravamo riuniti nella casa infestata avrebbero dovuto essere rivelate per il bene di tutti; e che fino ad allora avremmo taciuto sull'argomento, a meno che qualcosa di rilevante ci inducesse a rompere il silenzio.

 Insomma, dapprincipio fui ossessionato dalla lettera B.

Non ci volle molto per accorgermi che non avevo mai sognato nemmeno per caso Padron B. o qualunque cosa gli appartenesse. Ma nell'istante in cui mi destavo dal sonno, a qualunque ora della notte, i miei pensieri si impadronivano di lui e vagavano via, cercando di ricollegare la sua iniziale a qualcosa che le calzasse e la mettesse a tacere.

Per sei notti ero stato a preoccuparmi così nella stanza di Padron B., quando cominciai a percepire che le cose stavano andando per il verso sbagliato.

La prima apparizione si presentò la mattina presto quando non c'erano che le prime luci del giorno. Ero davanti allo specchio a farmi la barba e all'improvviso scoprii con stupore e costernazione che stavo radendo non me – io ho cinquant'anni – ma un ragazzo. Apparentemente Padron B.!

Rabbrividii e mi guardai alle spalle; nulla. Guardai di nuovo nello specchio e vidi distintamente i tratti e l'espressione di un ragazzo che si radeva non per sbarazzarsi della barba ma per farsela crescere. Con un gran subbuglio nella mente, feci quattro passi per la stanza e tornai allo specchio, deciso a tenere ben salda la mano e completare l'operazione durante la quale ero stato disturbato. Riaprendo gli occhi, che avevo chiuso mentre recuperavo la mia fermezza, incrociai stavolta nello specchio gli occhi, dritti nei miei, di un giovane di ventiquattro o venticinque anni. Terrorizzato da questo nuovo fantasma, richiusi gli occhi e feci un grande sforzo per riprendermi. Riaprendoli di nuovo, vidi radersi le guance nello specchio mio padre, che è morto da lungo tempo. Addirittura vidi anche mio nonno, che non avevo mai conosciuto in vita mia.

 “Dove mi trovo?” disse il piccolo spettro con voce patetica. “E perché sono nato al tempo del calomelano, e perché mi è stato dato tutto quel calomelano?”

Risposi con sincera franchezza che, sulla mia anima, non sapevo rispondergli.

“Dov'è la mia sorellina,” disse il fantasma, “e dov'è la mia angelica moglie, e dov'è il ragazzino con cui andavo a scuola?”.

Supplicai il fantasma di farsi coraggio, e sopra ogni altra cosa di darsi pace riguardo alla perdita del ragazzino con cui era andato a scuola. Gli feci notare che, per esperienza comune, probabilmente quel ragazzino non si sarebbe rivelato gran cosa, ritrovandolo. Incalzai aggiungendo che io stesso, in età adulta, avevo ricontattato molti miei compagni di scuola, e che nessuno di loro aveva affatto corrisposto alle aspettative. Espressi il modesto parere che il vecchio compagno di scuola non corrispondeva mai alle aspettative. Affermai che era una figura mitica, un'illusione e un imbroglio. Gli raccontai che, l'ultima volta che ne avevo incontrato uno, lo avevo visto a una cena di gala dietro all'ingombrante muro di un foulard bianco, con opinioni inconsistenti su ogni possibile argomento, e una capacità assolutamente titanica di annoiare a morte. Riferii di come, in forza del nostro essere stati insieme alla Old Doylance's, egli si era invitato a colazione con me (un'insolenza del più alto grado); di come, alimentando le fioche braci della mia fiducia nei ragazzi della Doylance's, glielo avevo permesso; e di come egli si fosse rivelato uno svitato che se ne andava per il mondo a tormentare la razza di Adamo con inspiegabili idee sulla valuta, teorizzando che la Banca d'Inghilterra dovesse, pena l'abolizione, sfornare e mettere in circolazione Dio sa quante migliaia di milioni di banconote da dieci scellini e sei pence.

 Il fantasma mi ascoltò in silenzio e con lo sguardo fisso. “Barbiere!” mi apostrofò quando ebbi finito.

“Barbiere?” ripetei, in quanto non è il mio mestiere.

“Condannato,” disse il fantasma, “a radere un continuo susseguirsi di clienti: ora io, ora un giovane, ora tu stesso così come sei, ora tuo padre, ora tuo nonno; condannato inoltre a giacere in compagnia di uno scheletro ogni notte e con esso a levarsi ogni mattina...”

(Rabbrividii udendo questa lugubre sentenza.)

“Barbiere! Seguimi!”

Avevo avvertito, già prima che queste parole venissero pronunciate, che ero costretto da un incantesimo a seguire il fantasma. Lo feci immediatamente, e non fui più nella stanza di Padron B.

Quasi tutti sanno a quali lunghe e faticose peregrinazioni notturne erano state costrette le streghe che confessavano, e che senza dubbio dicevano la pura verità, soprattutto perché venivano sempre aiutate da domande tendenziose e la tortura era sempre pronta. Io affermo solennemente che, nel periodo in cui occupai la stanza di Padron B., fui trascinato dal fantasma che la infestava in spedizioni lunghe e folli esattamente quanto quelle. Di certo non fui portato al cospetto di nessun vecchio trasandato con corna e coda caprine (una via di mezzo tra Pan e un anziano straccivendolo) che teneva le solite festicciole, stupide quanto quelle della realtà ma più indecenti; bensì mi imbattei in altre cose che mi parvero avere più senso.

E ora accadde, al culmine del godimento della mia beatitudine, che fui preda di un grave turbamento. Cominciai a pensare a mia madre, e a che cosa avrebbe detto vedendomi portare a casa per il solstizio d'estate otto tra le più belle figlie degli uomini, ma del tutto inattese. Pensai al numero di letti che avevamo a casa, a quanto guadagnava mio padre, e al fornaio, e il mio sconforto raddoppiò. L'harem e il malevolo visir, indovinando la ragione dell'infelicità del loro signore, fecero di tutto per accrescerla. Professarono un'incondizionata fedeltà e dichiararono che sarebbero vissuti e morti con lui. Gettato nella più totale ambascia da tali proclami di devozione, rimanevo sveglio nel letto per ore a rimuginare sulla mia terribile sorte. Nella mia disperazione credo che avrei potuto cogliere l'intempestiva occasione di cadere in ginocchio di fronte alla signorina Griffin e confessare la mia affinità con Salomone, supplicando di essere punito in base alle leggi del mio paese che avevo oltraggiato, se non mi si fosse presentata una via di fuga imprevista.

 Un giorno eravamo fuori a passeggiare, in fila per due – occasione nella quale il visir aveva come al solito l'ordine di sorvegliare il ragazzo addetto al cancello, e qualora egli avesse profanato con lo sguardo le bellezze dell'harem (cosa che succedeva sempre) farlo strangolare durante la notte – e accadde che i nostri cuori fossero velati di mestizia. Un inqualificabile gesto dell'antilope aveva precipitato lo stato nella disgrazia. Quella incantatrice, con la scusa che il giorno precedente era il suo compleanno, e che per celebrarlo erano stati inviati grandi tesori in un paniere (entrambe affermazioni prive di fondamento), aveva invitato in segreto ma con grande determinazione trentacinque principi e principesse del vicinato a una cena danzante, ponendo la speciale condizione che “non li si andasse a riprendere prima delle dodici”. Queste fantasticherie peregrine dell'antilope ebbero per conseguenza il sorprendente arrivo alla porta della signorina Griffin, in svariate carrozze e con svariati accompagnatori, di una nutrita compagnia in abito di gala, che venne depositata sulla soglia ebbra di aspettativa, e che venne congedata in lacrime. Quando si era cominciato a udire i due colpi di bastone d'uso in queste cerimonie, l'antilope si era ritirata in una soffitta sul retro e si era chiusa dentro; e a ogni nuovo arrivo la signorina Griffin si era alterata sempre più, fintanto che in ultimo era stata vista perdere le staffe. Alla definitiva capitolazione della colpevole era seguita la solitudine nel ripostiglio della biancheria, pane e acqua e una ramanzina per tutti, di vendicativa lunghezza, durante la quale la signorina Griffin aveva usato le seguenti espressioni: primo, “Penso che tutti voi ne foste al corrente”; secondo, “Ciascuno di voi è cattivo come tutti gli altri”; terzo, “Un branco di piccoli disgraziati”.

 

 

Versione completa:  http://libri.freenfo.net/3/3007080.html

 

 

EDUARDO DE FILIPPO

QUESTI FANTASMI - COPIONE

 

EDUARDO DE FILIPPO

 

Questi fantasmi - La nota della spesa

 

Atto II - Il caffé

 

 

 

 

 

 

 

BANANA YOSHIMOTO

KITCHEN

Con l'inizio delle vacanze di primavera cominciai a correre. Arrivavo fino al ponte e tornavo indietro, lavavo l'asciugamano e il resto, mettevo tutto nell'asciugatrice e aiutavo mia madre a preparare la colazione. Poi dormivo un po'. La mia vita andava avanti così. La sera incontravo gli amici, guardavo dei video, facevo di tutto pur di non restare senza niente da fare. Ma era uno sforzo vano. Di cose che avrei voluto fare veramente ce n'era solo una. Incontrare Hitoshi. Ma a tutti i costi dovevo mantenere in qualche modo in movimento le mani, il corpo, la mente. Se avessi continuato a sforzarmi, a un certo punto si sarebbe aperto uno spiraglio: almeno così mi sforzavo di credere. Non c'era nessuna garanzia, ma credevo che ce l'avrei fatta a resistere fino ad allora. Quando mi era morto il cane, quando mi era morto l'uccellino, avevo tirato avanti più o meno così. Ma in questo caso non funzionava. I giorni passavano senza spiragli, sempre più desolati. Continuavo a ripetere, come se pregassi:

`Ce la farò, ce la farò a uscirne. È solo questione di tempo.'

Il fiume dove mi fermavo ogni giorno divide più o meno la città in due. Fino al ponte bianco che collega una riva all'altra ci vuole una ventina di minuti. Amavo quel posto. Era lì che io e Hitoshi, che abitava dall'altra parte del fiume, ci davamo sempre appuntamento e anche dopo la sua morte vi ero rimasta legata.

Mi fermavo in un punto dove non c'era mai nessuno, e circondata dal rumore dell'acqua mi riposavo e bevevo piano il tè bollente dalla borraccia. Gli argini bianchi del fiume si perdevano in lontananza, e il panorama della città era avvolto nella nebbia azzurrina dell'alba. Ferma così, in quell'aria cristallina e pungente, mi sembrava di stare in un luogo un po' più vicino alla morte. Solo in quello scenario severo e limpido, di una solitudine desolata, riuscivo a sentirmi a mio agio. Non per masochismo: perché senza quel momento non avrei avuto la forza per affrontare il resto della giornata. Quel paesaggio era diventato per me assolutamente necessario.

Anche quella mattina feci brutti sogni e mi svegliai di colpo. Erano le cinque e mezzo. L'alba prometteva una giornata serena. Come sempre mi cambiai e uscii. Fuori era ancora buio e non c'era anima viva. L'aria era gelida e le strade biancastre e opache. Il cielo blu cupo cominciava a tingersi a oriente di una delicata sfumatura rossa.

Mi sforzavo di correre. A volte, quando mi sentivo mancare il fiato, mi veniva da pensare che correre così, stanca com'ero per la notte trascorsa, non fosse solo un modo di maltrattarmi. Era un dubbio che respingevo subito nella mia mente confusa: mi dicevo che se non altro al ritorno avrei dormito. La tranquillità delle strade era così totale che faticavo a mantenere chiara la coscienza.

Il rumore del fiume si faceva più vicino, e il cielo cambiava a ogni istante. Una bella giornata stava per nascere attraverso il cielo azzurro e limpido.

Arrivata al ponte, come sempre mi appoggiai alla balaustra e mi misi a guardare le strade e le case che sfumavano indistinte nell'azzurro dell'aria. Il fiume scorreva con un suono fragoroso, trascinando ogni cosa con la sua schiuma biancastra. Un vento freddo mi soffiava sul viso, asciugando il sudore. Nell'aria ancora rigida di marzo splendeva chiara la mezza luna. Il respiro si condensava in vapore bianco. Mentre guardavo il fiume, versai del tè nel tappo della borraccia e stavo per berlo. In quel momento una voce risuonò improvvisa alle mie spalle.

"Che tè bevi? Me lo fai assaggiare?"

Sussultai. Fui colta così di sorpresa che lasciai cadere la borraccia nel fiume. Mi rimase in mano solo il tappo, pieno di tè fumante.

Molti pensieri mi agitarono tutti insieme. Mi voltai. Davanti a me c'era una ragazza dal viso sorridente. Doveva essere più grande di me, ma non riuscivo proprio a immaginare quanti anni avesse. Provai ad azzardare un'età. Forse intorno ai venticinque... Aveva capelli corti e occhi grandi e limpidi. Portava un soprabito bianco su abiti leggeri, ma sembrava che non avvertisse il freddo. Non mi ero accorta affatto della sua presenza vicino a me.

Sorridendo allegramente, con una dolce voce nasale, disse:

"È successo come in quella favola di Grimm. O era di Esopo? La favola del cane."

"Nella favola," dissi freddamente, "il cane vede la sua immagine riflessa nell'acqua e lascia cadere l'osso. Non è qualcun altro a farglielo cadere."

"Vuol dire che ti ricomprerò la borraccia," disse lei e sorrise.

"Grazie." Mi sforzai di sorridere anch'io.

Era così placida che non riuscii ad arrabbiarmi e finii col pensare anch'io che fosse una cosa da niente. No, non aveva né 1'aría di una folle e neppure quella di un'ubriaca che torni a casa all'alba. Aveva occhi troppo limpidi e intelligenti, e un'espressione di una profondità incredibile, quasi avesse assorbito tutta la tristezza e la gioia del mondo. Forse per questo l'atmosfera sembrava tendersi intorno a lei.

Mandai giù solo un sorso del tè che era rimasto e porsi il resto a lei:

"Prendi, è alla pera."

"Ah, mi piace un sacco," disse lei, afferrando il tappo con le sue dita sottili. "Sono appena arrivata. Vengo da piuttosto lontano."

Parlava guardando il fiume con lo sguardo brillante, esaltato, tipico di chi viaggia.

"Per turismo?" chiesi, pensando fra me: Ma che ci sarà mai venuta a fare in un posto come questo dove non c'è niente?

"Sai, presto qui ci sarà uno spettacolo che si vede solo una volta ogni cento anni," disse.

"Uno spettacolo?"

"Sì. Se ci saranno le condizioni adatte." "Che tipo di spettacolo?"

"È ancora un segreto. Ma te lo dirò senz'altro. In cambio del tè," disse, ma si mise a ridere e io non feci domande. Si sentiva nell'aria avvicinarsi il mattino. La luce si scioglieva nell'azzurro del cielo, e un bagliore impercettibile orlava di un luminoso candore gli strati dell'atmosfera. Pensai che era ora di tornare. Dissi:

"Beh, adesso devo andare."

Lei mi guardò dritto negli occhi col suo sguardo luminoso e disse:

"Io mi chiamo Urara. E tu?" "Satsuki," risposi io.

"A presto," disse Urara, e mi salutò agitando la mano. Anch'io la salutai con la mano mentre mi allontanavo. Che strana ragazza! Non avevo capito niente di quello che aveva detto, ma mi aveva dato l'impressione di una persona che non avesse una vita ordinaria come gli altri. Mentre correvo, i miei dubbi si facevano più profondi ad ogni passo. Presa da una strana inquietudine mi voltai. Urara era ancora sul ponte. Di profilo, guardava il fiume. Rimasi stupefatta. Il suo viso sembrava completamente diverso da quello della ragazza con cui avevo parlato poco prima. Non avevo mai visto un'espressione così grave.

Quando si accorse che mi ero fermata, di nuovo mi sorrise e mi salutò con la mano. Imbarazzata, anch'io la salutai e ripresi a correre.

Ma che tipo di persona sarà mai? continuai a chiedermi per un po'. Quella mattina, mentre prendevo sonno, la mia mente era occupata da quella misteriosa ragazza chiamata Urara, circondata dai raggi abbaglianti del sole.

 

 

LA FANCIULLA DEL PARAVENTO

LAFCADIO HEARN

 Dice il vecchio autore giapponese Hakubai-En Rosui: “Nei libri cinesi e giapponesi sono riportate molte storie – sia dei tempi antichi, sia di quelli moderni -  relative a dipinti tanto stupendi da esercitare un’influenza magica sui loro proprietari. E riguardo questi meravigliosi dipinti – siano essi raffigurazioni di fiori, di uccelli o di persone dipinte da artisti famosi – si dice inoltre che le forme delle creature o delle persone ivi ritratte, a volte, si stacchino dalla carta o dalla seta su cui sono state dipinte, agendo poi in vari modi, tanto da diventare, per loro propria volontà, realmente vive. Non vogliamo qui riproporre alcuna storia di questo tipo fra quelle note a tutti dalle epoche antiche. Tuttavia anche in tempi moderni la fama dei dipinti di  Hishigawa Kichibei - «I ritratti di Hishigawa» - si è diffusa ampiamente in tuto il paese.”

E continua raccontando la seguente storia relativa a uno dei così detti ritratti.

C'era un tempo a Kyoto un giovane studioso di nome Tokkei. Viveva in una contrada chiamata Muromachi. Una sera, tornando a casa dopo una visita, la sua attenzione venne attratta da un vecchio paravento a pannello unico (tsuitaté), esposto in vendita davanti alla bottega di un rigattiere che vendeva roba di seconda mano. Era un paravento coperto soltanto di carta; ma sopra di essa vi era dipinta  per l’intera lunghezza l'immagine di una fanciulla che attirò la fantasia del giovane uomo. Il prezzo richiesto era molto basso; Tokkei comperò quel pannello e se lo portò a casa.

Quando poi riguardò il paravento nella solitudine della sua stanza, il dipinto gli sembrò ancora più bello di prima. Apparentemente era un ritratto dal vero, il ritratto di una giovinetta di quindici  o sedici anni; e ogni minimo dettaglio della pittura dei capelli, degli occhi, delle ciglia, della bocca era stato eseguito con una delicatezza e una veridicità superiore a ogni apprezza-mento. I manajiri

sembravano «simili alla benevolenza civettuola di un fior di loto»; le labbra erano «simili al sorriso di un fiore rosso»; l'intero giovane volto era indicibilmente dolce. Se la ragazza reale fosse stata tanto amorevole quanto era qui ritratta, nessun uomo avrebbe certo potuto guardarla senza perdervi il cuore. E Tokkei credeva davvero che essa dovesse essere proprio così amorevole; perché quella figura sembrava viva - pronta a rispondere a chiunque le avesse rivolto la parola.

 Pian piano, continuando a fissare quel dipinto, il giovane si sentì stregato dal  suo fascino.

"Potrà davvero essere esistita a questo mondo" mormorava a se stesso, "una crea¬tura tanto deliziosa? Come sarei felice di poter dare la mia vita - anzi, mille anni di vita. - pur di poterla stringere fra le mie braccia anche solo per un momento!" (L'autore giapponese dice «per pochi secondi»).

Insomma, egli si invaghì di quel dipinto - se ne invaghì a tal punto da pensare che mai avrebbe potuto amare un'altra donna se non quella lì raffigurata. Eppure quella persona, qualora fosse stata ancora viva, avrebbe anche potuto non assomigliare affatto a quel dipinto: forse era stata addirittura sepolta molto tempo prima che egli nascesse!

Giorno dopo giorno, comunque, questa passione disperata si impossessò di lui. Non riusciva più a mangiare; non riusciva più a dormire: neppure riusciva a occupare la sua mente con quegli studi che prima lo avevano tanto deliziato. Era capace di star seduto per delle ore davanti a quel dipinto a parlargli - trascurando o dimenticando ogni altra cosa. E alla fine si ammalò - si ammalò tanto da credere lui stesso di stare per morire.

Ora fra gli amici di Tokkei c'erti un venerabile dotto che sapeva molte strane cose a proposito di antichi dipinti e di giovani cuori. Questo anziano sapiente, essendo venuto a conoscenza della malattia di Tokkei, andò a fargli visita, e vide quel paravento e comprese che cosa fosse accaduto; allora Tokkei, interrogato, confessò ogni cosa all'amico, e dichiarò:

"Se non riuscirò a trovare quella donna, morirò."

Il vegliardo gli disse: "Questa immagine è stata dipinta da Hishigawa Kichibei - dipinta dal vero. La persona che raffigura ora non è più al mondo. Ma si dice che Hishigawa Kichibei abbia dipinto la sua anima insieme alle sue forme, e che quindi il suo spirito viva dentro il ritratto. Credo quindi che tu possa conquistarla."

Tokkei si rizzò a metà sul letto e fissò con impazienza colui che parlava.

"Devi darle un nome" continuò il vecchio, "e devi metterti ogni giorno seduto davanti al suo ritratto e tenere costantemente i tuoi pensieri fissi su di lei, e chiamarla gentilmente con il nome che le hai dato, insistendo finché ti risponderà..."

"Mi risponderà!" esclamò l'innamorato senza fiato per lo stupore.

"Oh, sì" gli rispose il suo consigliere, "ti risponderà certamente. Ma tu devi essere poi pronto, quando ti risponderà, a offrirle quanto ti sto per dire..."

"Le darò la mia vita!" gemette Tokkei. "No" disse il vecchio, "le presenterai una coppa di un vino che sia stato comperato in cento negozi differenti. Allora lei uscirà fuori dal paravento per accettare il vino. Dopo di che, probabilmente, ti dirà lei che cosa dovrai fare."

Con queste parole il vecchio saggio si accomiatò. Le sue parole avevano sollevato Tokkei dalla disperazione. Immediatamente si sedette davanti a quell'immagine e la chiamò con un nome di ragazza - (il narratore giapponese si è dimenticato di dirci quale nome) - con insistenza e molto teneramente. Quel giorno non ebbe alcuna risposta, e neppure il giorno seguente, né quello dopo ancora. Ma Tokkei non perse mai la fiducia né la pazienza; e dopo molti giorni all'improvviso una sera essa gli rispose a quel nome:  "Hai!" (Sì).

Allora veloce veloce egli versò un po' del vino comperato in cento negozi differenti o con deferenza glielo offrì in una piccola coppa. E la fanciulla uscì fuori dal paravento e attraversò il locale coperto di stuoie e si inginocchiò per prendere la coppa dalle mani di Tokkei, domandandogli con un sorriso delizioso:   "Come hai potuto amarmi tanto?"

Dice il narratore giapponese: «Ella era assai più bella del dipinto -- bella fino alla punta delle unghie delle dita, bella dunque nel cuore e nell'indole – più amorevole di qualsiasi altra al mondo».

Che cosa Tokkei abbia risposto allo domanda non ci viene riferito: bisogna immaginarselo.

"Ma ti stancherai presto di me?" domandò lei.   "Mai, finché vivrò!" protestò lui.

"E poi?" insistette lei; infatti la sposa giapponese non si accontenta di un amore che duri una sola vita.    "Impegnamoci entrambi" supplicò lui, "per il tempo di sette esistenze."

"Se mai sarai scortese con me" disse lei, "ritornerò dentro il paravento."

I due si impegnarono reciprocamente. Suppongo che Tokkei sia stato un buon ragazzo, per cui la sua sposa non sarà mai tornata dentro il paravento. Il posto che aveva occupato sopra di esso restò vuoto e bianco.   Esclama l'autore giapponese:  "Quanto raramente capitano al mondo cose di questo genere!"

 

 

ORHAN PAMUK

LE OMBRE E I FANTASMI CHE SCAMBIAVO PER FUSÜN

(IL MUSEO DELL’INNOCENZA)

 Limitare con dei divieti le strade in cui avevo trascorso la mia vita, e stare lontano dagli oggetti che mi ricor­davano Füsun, purtroppo, non fu sufficiente a dimenticarla: ormai avevo cominciato a vedere il suo fantasma tra le persone ­per strada o alle feste.

Il primo incontro, quello più traumatico, avvenne una sera ver­so la fine di luglio sul battello con autovetture al segui­to, mentre andavo a trovare i miei genitori alla casa di villeggi­atura  di Suadiye. Partito da Kabataş, il battello stava per approdare a Üsküdar e anch'io, come gli altri autisti impazienti, ­avevo messo in moto la macchina, quando d'un trat­to vidi Füsun uscire dalla porta laterale riservata ai pedoni. Ilo portellone centrale per lo sbarco delle auto non era ancora stato aperto: se mi fossi precipitato fuori dalla macchina e le fossi corso dietro, l'avrei raggiunta, ma in quel caso avrei bloccato l'uscita. Con il cuore che mi batteva all'impazzata mi catapultai fuori dall'auto. Stavo per chiamarla con tutta la forza che avevo nei polmoni, quando notai con gran dispia­cere che dalla vita in giù (che adesso rientrava nel mio angolo visu­ale) era molto più grossa e goffa della mia Füsun, e anche il ­viso era di una forma completamente diversa. Nei gior­ni successivi non feci che rivivere al rallentatore quegli otto, dieci secondi in cui il mio dolore si trasformò in un'eccitazio­ne gioiosa e un po' alla volta mi convinsi intimamente che l'avrei inc­ontrata in una simile circostanza.

Qualche giorno dopo, a mezzogiorno ero al cinema Konak, dove ero andato per svagarmi un po', quando la vidi otto o dieci gradini davanti a me, mentre salivo lentamente l'ampia scalinata che conduceva all'uscita. I suoi lunghi capelli tinti di biondo e il suo corpo sottile mi fecero prima battere il cuore e poi misero in moto le mie gambe. Mentre le correvo incontro volevo chiamarla come in un sogno, ma non mi uscì un filo di voce, perché all'ultimo istante mi accorsi che non era lei.

A Beyoğlu ci andavo più spesso perché il pericolo che me la ricordasse era limitato, ma una volta vidi la sua ombra riflessa in una vetrina e andai in confusione. Un'altra volta la vidi di nuovo da quelle parti: avanzava con la sua tipica camminata tra la folla che andava a fare spese o entrava al cinema. Le corsi dietro, ma prima di raggiungerla la persi di vista. Siccome non riuscivo a capire se quella persona fosse un miraggio frutto del mio dolore, o se fosse reale, nei giorni successivi, alla stessa ora, camminai avanti e indietro inutilmente tra la moschea di Ağa e il cinema Saray e poi detti in una birreria, all'interno, vicino al vetro, a guardare la via, il paesaggio e i passanti.

Simili incontri paradisiaci a volte duravano solo pochi attimi. Questa foto che mostra l'ombra bianca di Füsun in via Taksim, ad esempio, è solo la prova di un'illusione ottica durata qualche secondo.

In quegli stessi giorni notavo che molte ragazze e donne portavano la medesima acconciatura di Füsun, avevano sua stessa corporatura e che molte more si erano fatte bionde. Le strade di Istanbul erano piene di fantasmi di Füsun, fantasmi che apparivano solo per pochi istanti e poi sparivano. Ma osservando più da vicino questi fantasmi mi accorgevo che in realtà non somigliavano affatto alla mi Füsun. Una volta, mentre giocavo a tennis con Zaim al Circolo dell'alpinismo, la vidi seduta a uno dei tavolini a bordo-campo con tre ragazze che bevevano divertite la gassosa Meltem: sul momento fui più stupito di vederla al club che di averla ritrovata. Un'altra volta ero sul ponte di Galata e vidi il suo fantasma tra i passeggeri che sbarcavano dal battello di Kadiköy: faceva segno di fermarsi ai dolmuşche passavano. A poco a poco il mio cuore e la mia mente si abituarono a queste illusioni. Al cinema Saray, durante l'intervallo tra due film, l'avevo vista quattro file davanti a me con le sorelleche leccavano di gusto il loro gelato al cioccolato «Mi­raggio»; inizialmente non avevo pensato che Füsun era fi­glia unica, e fino all'ultimo avevo assaporato quell'illusione – un’illusione che alleviava la mia sofferenza - e avevo cer­cato di non pensare che quella ragazza in realtà non era Füsun e che per di più non le somigliava affatto.

Lavidi davanti alla Torre dell'Orologio accanto a Palazzo Dolmabahçe, al mercato di Beşiktas nelle vesti di una casalingacon in mano la borsa di rete per la spesa e - questa volta piú sorprendente ed eccitante - mentre guardava fuori dalla finestra al terzo piano di un palazzo a Gümüşsuyu. Quandovide che la guardavo, fermo sul marciapiede, an­che il fantasma di Füsun mi fissò. Allora la salutai con la mano elei ricambiò il saluto. Tuttavia dal modo di salutare ca­pii subito che non si trattava di Füsun e mi allontanai imbarazzato. Ciononostante, in seguito, sognai che suo padre l’avessefatta sposare in fretta e furia con un altro perché mi potesse dimenticare e cominciare così una nuova vi­ta, ma chelo stesso desiderasse vedermi. Al di là dei primi secondi di ogni incontro, che mi donavano un autentico sol­lievo, tutte le volte, in un angolo della mia mente, mi accor­gevo che questi fantasmi non erano Füsun, ma soltanto il frutto fantasioso della mia anima infelice. Eppure vederme­la davanti all'improvviso faceva sbocciare nel mio cuore un sentimento così tenero che avevo preso l'abitudine di frequentare i posti affollati dove avrei avuto buone probabi­lità di incontrare il suo fantasma: era come se avessi segnatoquesti luoghi nella piantina di Istanbul che avevo in testa. Miveniva spontaneo, insomma, andare nei luoghi dove vedevo più spesso le ombre che scambiavo per Füsun. La città era diventata una foresta di simboli, e ognuno era un suo ricordo.

 

 

QUELLO CHE AVVIENE TRA LE 17 E LE 18 DI MERCOLEDÌ 5 MARZO 1958

 

Hey mambo, mambo italiano

Hey mambo, mambo italiano

Go, go go you mixed up siciliano

All you calabrese to the mambo

like-a crazy with the

Hey mambo, don’t wonna tarantella

Hey mambo, no more, a mozzarella

 

Mambo italiano, Rosemary Clooney

 […]

La tavola è apparecchiata, sulla cucina economica bolle una pentola, l’aria odora di cibo buono e tutto è perfettamente a posto: c’è persino un vaso di fiori freschi.

«Volatilizzati un’altra volta! Ma ci sono davvero o il fattore e la moglie sono solo due fantasmi? Questa mattina Vilma non è venuta. Forse non esiste», e ride.

Erica Arosio, Giorgio Maimone, Vertigine

PICNIC ALLA CASA DEI FANTASMI

CASA BAI

VIA BRAVO LIVIO 17 - GAVIRATE (VA)

DOMENICA 22 GIUGNO 2014

DALLE 12 ALLE 20

 

 

 

In treno: FNM - Stazione Ferrovie Nord FNM Gavirate

(uscita dal sottopassaggio verso via Sanvito)

In auto da Milano: Autostrada A8  Uscita Azzate-Buguggiate poi SP 1

Dal centrocittà imboccare Viale Verbano e poi la prima a desta Via Buzzi.

Presso il fantasma del Cinema Eden trovate ampio parcheggio.

Altro parcheggio consigliato è quello della  Stazione FNM Gavirate (Via privata Sanvito)

 

 

a cura di

Giovanni Bai/museoteo+ & Ermanno Cristini/riss(e)

con

Giovanni Bai, Cesare Biratoni, Carlo Buzzi, Vincenzo Cabiati, Ermanno Cristini, Oppy De Bernardo, Roberto De Luca, Tiziano Doria, Diana Dorizzi, Carolina Gozzini, Klaus Guldbrandsen,  E.B. Hasselbaker, Nicoletta Meroni, Microcollection, Yari Miele, Chiara Mu, Federica Pamio, Vera Portatadino, Luca Scarabelli, Mario Tedeschi, Aline Wragg Vincenzi, Margaretha Zelle e la partecipazione straordinaria di Zio Busker.

 

 

Domenica 22 giugno 2014 MUSEOTEO+ e RISS(E) hanno organizzato un PICNIC ALLA CASA DEI FANTASMI.

Secondo atto di un progetto in divenire, l’evento ha luogo in una casa privata, densa di storia e di ricordi secondo la tradizione di Muse Teo, che iniziava la sua attività nel 1990 con una riflessione sullo spazio e la memoria in una casa ormai vuota, dove c’era solo “quello che resta quando non resta niente” (Georges Perec)

La casa di Gavirate, invece,  è piena di mobili e di cose, oltre che di fantasmi e di memoria, tra cui si inseriscono e si nascondono  le opere, da scoprire nella penombra con l’uso delle pile. E visto il numero degli artisti che hanno accettato di partecipare, la casa sarà letteralmente  farcita, così come le nostre pance.

Il picnic, invece, è in giardino, all’ombra del tiglio e al cospetto di un maestoso abete, e lì si mangia e si beve, perché l’arte se non è una festa…  (“La rivoluzione sarà una festa o non sarà” si diceva quando i curatori erano giovani…)

Finito il picnic si smonta la mostra, che dura il tempo della inaugurazione, proprio della pratica di Museo Teo, ma anche di Roaming. Come in un picnic che si rispetti ci si porta il cestino con la propria merenda, magari le tovaglie a quadri, ma per imbandire la tavola. I plaid, forse, non servono…

Non dimentichiamo  la mostra: lo  spirito di Georges Perec, di  Aby Warburg e di Giulio Carlo Argan aleggia sui lavori di Giovanni Bai, Cesare Biratoni, Carlo Buzzi, Vincenzo Cabiati, Ermanno Cristini, Oppy De Bernardo, Roberto De Luca, Tiziano Doria, Diana Dorizzi, Carolina Gozzini, Klaus Guldbrandsen,  E.B. Hasselbaker, Nicoletta Meroni, Microcollection, Yari Miele, Chiara Mu, Federica Pamio, Vera Portatadino, Luca Scarabelli, Mario Tedeschi, Aline Wragg Vincenzi e Margaretha Zelle.

Indizi, tracce del tempo,quotidiano e senso dell’attesa,apparire e disparire, fotografie, quadri, installazioni site-specific: «e poi le pile fanno luce dove vuoi tu, le dirigi, le orienti e decidi che cosa escludere dalla tua vista e su che cosa fissare lo sguardo [per] ritrovare i nostri fantasmi personali, collettivi, del passato, del presente costantemente presente e del tempo che verrà» (Nicoletta Meroni).

Special guest Zio Busker, musicista di strada, che realizzerà dal vivo la colonna sonora della giornata!

 

http://museoteo.blogspot.it/2014/06/picnic-haunted-house.html

 

 

 

On Sunday 22nd June 2014 in Gavirate (VA) MUSEOTEO+ and RISS(E) present the exhibition PICNIC @ THE HAUNTED HOUSE.

 

Curated by Giovanni Bai/museoteo+ & Ermanno Cristini/riss (e), PICNIC @ THE HAUNTED HOUSE is the second act of an ongoing project. The event takes place in a private house, full of history and memories, following the tradition of Museo Teo, who started his activity in 1990 questioning space and memory in an almost empty house, where there was only "that which remains when there is nothing left" (Georges Perec).

 

The house in Gavirate, however, is full of furniture and things, as well as ghosts and memory. The works are displayed and concealed, to be discovered in the dim light with the help of torchlights. The picnic takes place in the garden, in the shade of a linden tree and in the presence of a majestic fir. When the picnic is over, the exhibition will be disassembled. It will have lasted just the time of the inauguration, as usually happens with Museo Teo events, but also in occasion of Roaming.

 

The show features works by: Giovanni Bai, Cesare Biratoni, Carlo Buzzi, Vincenzo Cabiati, Ermanno Cristini, Oppy De Bernardo, Roberto de Luca, Tiziano Doria, Diana Dorizzi, Carolina Gozzini, Klaus Guldbrandsen, E.B. Hasselbaker, Nicoletta Meroni, Microcollection, Yari Miele, Chiara Mu, Federica Pamio, Vera Portatadino, Luca Scarabelli, Mario Tedeschi, Aline Wragg Vincenzi and Margaretha Zelle.

 

Clues, traces of time, everyday life and a sense of expectation, appearing and disappearing, photographs, paintings, site-specific installations… The spirit of Georges Perec, Aby Warburg and Giulio Carlo Argan hovers on all the works.

"And then flashlights [that] make light where you want it. You can direct them and decide what to exclude from your sight and what to focus on, [to] meet again our personal and collective ghosts, those of the past, those of 'the-so-present present', and those of the time to come. "(Nicoletta Meroni).

 

Special guest Zio Busker, street musician, who will compose live the soundtrack of the event.